venerdì 14 dicembre 2012

Nizag


Sono arrivata a Nizag a bordo di un furgoncino aperto sul retro. Sedute accanto a me sulla panchetta di legno c’erano alcune donne della comunità venute a prendermi. Con le lunghe gonne di lana dai colori sgargianti, le camice bianche con i ricami floreali e il tradizionale sombrero bianco che risaltava i capelli nerissimi, erano davvero belle. Ciò che mi affascinava di più erano le parole che ascoltavo. Chiaro, non capivo una sillaba: era Quichua, la lingua degli indigeni. Solo il suono però sembrava musica.
Nizag è una comunità di indigeni nella provincia del Chimborazo. Da Quito sono otto ore di autobus, ma mi è sembrato di entrare in un mondo lontano anni luce.

Le strade sono tutte sterrate, le case sono costruite in terra cruda. Ogni famiglia possiede qualche pecora o qualche capra, polli, magari anche una mucca, un paio di maiali e un asino. Coltivano cereali, ortaggi e frutta. In questo modo ricavano giusto il necessario per mangiare e per  vivere, non producono eccedenze destinate alla vendita, ma sono quasi del tutto autosufficienti. Di certo non esiste ricchezza, ma neanche miseria.

Ho vissuto a Nizag una settimana, in cui ho potuto respirare una gran pace. Passeggiando vedevo ragazzini che portavano le capre al pascolo, uomini che zappavano la terra, ragazze che lavavano i vestiti alla fontana, bambini di sei anni con in spalla il fratellino di un anno, donne che filavano la lana con il fuso o che essiccavano delle foglie particolari da cui ricavano fibre da tessere.

Una vita faticosa, ma serena e rilassata. Ho sorriso quando, chiedendo ad una bambina di nove anni cosa le piace fare nel tempo libero, mi ha risposto “ vivir tranquila”.

Sorridenti, disponibili per qualsiasi cosa, sempre pronti ad offrirmi una pagnotta di pane, un quimbolito al cacao o un regalino. L’accoglienza che ho ricevuto mi ha lasciata senza parole.
Come sempre però non è tutto rose e fiori: una cosa che mi fa rabbia è la sottomissione della donna al marito. Spesso le ragazze non possono neanche scegliere il loro sposo.

L’ultima sera hanno organizzato una despedida, ovvero una piccola festa di saluto. Non smetto di emozionarmi ogni volta davanti ai balli e alle musiche di questa terra! Sono qualcosa di meraviglioso!

lunedì 26 novembre 2012

Juncal

Questo week end sono andata a trovare Fabio e Olga, detti anche bianco e nera: lui è italiano, lei è afroecuatoriana. Si sono sposati e da poco è nata una bellissima bambina color cannella.
Vivono a Juncal, un piccolo paese a nord di Quito, la cui popolazione è 100 % afro, con la sola eccezione di Fabio. Era stranissimo girare per le strade ed essere l’unica bianca… mi guardavano tutti!!
Conoscere la storia di Fabio e Olga è stata per me una testimonianza bellissima. Juncal si trova in una delle zone più povere dell’Ecuador. Il livello di disoccupazione è altissimo, quello d’istruzione bassissimo. Per i giovani non c’è assolutamente niente, neanche un luogo di ritrovo. Ma la gente si è abituata a vivere, o meglio sopravvivere, lì, e non ci sono grandi rivendicazioni, né speranze per un futuro migliore.
Proprio qui hanno deciso di trasferirsi Fabio e Olga dopo il matrimonio.
Hanno creato una piccola associazione che lavora con le donne e con i giovani, e ci stanno dedicando quasi tutto il loro tempo e le loro risorse con un’energia incredibile. Con le donne è nato un progetto di turismo comunitario, uno di artigianato e uno di balli e musica. In questo modo riescono ad aumentare un po’ le entrate nel bilancio familiare e stanno riscoprendo la cultura afro, che sta rischiando di scomparire.
Con i giovani invece cercano di creare occasioni di incontro, di riflessione e di volontariato.
Mi hanno confessato che ancora stentano a vedere dei risultati, ma un piccolo cambiamento si sta muovendo.
Mi è piaciuto tantissimo il modo in cui mi hanno accolta, non mi conoscevano, ma mi hanno fatto sentire subito a casa. Li ho aiutati a sistemare l’orto, a preparare la marmellata di Guayaba e a impastare le tortillas di yucca. Si respirava una pace bellissima.
Sabato sera  siamo andati al matrimonio di una coppia del paese, gli sposi avevano la mia età e già un figlio di tre anni. Dopo la Messa è cominciata la festa… musica afro e balli per tutta la notte! Noi siamo tornati a casa alle cinque di mattina (io non mi sentivo più i piedi!), ma fino alle 8 è stata festa grande! :D

In questi giorni non riesco molto a farmi sentire con le mail e skype, quindi approfitto del blog per dirvi che sto bene, che sono felice perché sto conoscendo un sacco di persone di qui, e, se anche a piccoli passi, sto cominciando a stringere delle belle amicizie.
Il lavoro al centro infantile mi sta coinvolgendo sempre di più. Non è facile: con i bambini non esistono scuse ed è impossibile tirarsi indietro, esigono che mi metta in gioco con tutte le mie energie. Ho la sensazione di avere tra le mani qualcosa di preziosissimo ma delicatissimo: i bambini non hanno difese, il potere che abbiamo su di loro è enorme, e di conseguenza lo è anche la responsabilità.  Assorbono tutto ciò che vivono, e tutto farà parte di loro quando saranno grandi.
Moltissimi dei bambini con cui lavoro vivono situazioni di maltratto e violenza in famiglia, altri non hanno il papà, molti hanno ritardi nel linguaggio perché nessuno in casa li ascolta. Io non ho nessuna competenza da offrirgli, cerco solo di riempirli di affetto e di attenzione.
Alla fine della giornata però mi rendono conto che mi hanno restituito moltiplicato per cento l’amore che gli ho dato: mi vengono  in mente Isabel, a cui piacciono tantissimo gli abbracci, mi abbraccia così forte che sembra che voglia ricaricarsi di forza.  La risata allegra di Abigail, quando la faccio volare come un aereo. Lo sguardo quasi sempre serio e triste di Israel, che però si illumina ogni volta che lo faccio saltare sulle mie ginocchia. E le decine di bimbi che ogni mattina, quando arrivo, mi corrono incontro con un sorriso enorme urlando “Hola Claritaaaa!!!”
Mi vogliono e mi chiamano per quello che sono, con loro non esistono maschere né barriere.
Sono io che ho bisogno di loro: mi stanno tirando fuori tutto l’amore e la tenerezza di cui sono capace. E me ne stanno dando a palate.
Mi sto accorgendo che i bambini stanno risvegliando il meglio di me, mi stanno rivelando quei doni che non sapevo nemmeno di avere. Credo che valga per tutte le persone più deboli e meno considerate, credo che siano una sorgente d’amore capace di farci uscire da noi stessi e di trasformarci.

sabato 10 novembre 2012

MINGA


 

Oggi ho imparato una parola bellissima: Minga. Ovvero LAVORO COMUNITARIO. Per gli ecuatoriani è un’esperienza comune, nelle città come nei villaggi indigeni. Quando c’è un lavoro da fare, come il tetto di un asilo da riparare o una strada da costruire, ciascuna famiglia manda almeno un membro a lavorare, anche se non ha figli in quell’asilo o non passa mai per quella strada... stupendo!
Il quartiere dove vivo, Carcelen Bajo, qualche hanno fa era molto più povero e degradato di com’è ora. E’ stato costruito quasi tutto negli ultimi anni… attraverso minghe organizzate spontaneamente dalla gente!
Però ora che c’è un po’ più di benessere, ci sono le strade, le fogne, le antenne della tv non si fanno più minghe a Carcelen Bajo…
Un proverbio africano dice “l’abbondanza divide il villaggio più della carestia”


... into the wild!


Siamo partiti in quattro: Federica, Jessica, Juanpablo e io.
Destinazione: … foresta amazzonica! Il polmone verde della terra.

Domenica è stato principalmente un giorno di viaggio, a bordo del furgoncino verde di Juanpablo, che ad un certo punto pareva quasi scoppiare (il furgoncino, non Juanpablo) perché abbiamo dato un passaggio ad una bellissima famigliola ecuatoriana che faceva l’autostop.
Ad un certo punto del tragitto ci siamo fermati e abbiamo imboccato a piedi un sentierino che costeggiava un torrente… Lo spettacolo che ci aspettava era mozzafiato: …la cascata più grande che io abbia mai visto!!! Ho visto la POTENZA della natura. Sprigionava una forza incredibile… invincibile.

 Lunedì è cominciata la vera avventura: quattro giorni dentro la foresta! Ci siamo inoltrati nel cuore della giungla ecuatoriana a bordo di una canoa, accompagnati da una guida. Ho visto farfalle azzurre più grandi di una mano, pappagalli, tartarughe, serpenti, scimmie.  Man mano che avanzavamo lungo il fiume la vegetazione si faceva sempre più selvaggia, intricata, intimorente. Mi sono sentita quasi respinta.
Eppure da secoli l’uomo è riuscito ad adattarsi a questa terra e a entrare in armonia con essa: l’Amazzonia è popolata da numerosi  piccoli villaggi di indigeni, raggiungibili solo in canoa, come abbiamo fatto noi.
Gli abitanti di questi villaggi, anche se sono vestiti come noi e hanno qualche contatto con le città, conservano ancora alcune delle loro tradizioni più antiche. Vivono in semplici capanne di legno e sono quasi autosufficienti: pescano, cacciano, coltivano riso,yuca,banane,cacao e caffè. Abbiamo preparato con loro il cibo tradizionale, una specie di focaccia di yuca, e abbiamo conosciuto lo sciamano del villaggio.
Purtroppo, man mano che vengono trovati nuovi giacimenti di petrolio, questi villaggi, e la natura che li circonda, rischiano di scomparire.

 La natura dell’Amazzonia è incredibile, abbiamo camminato dentro questa foresta meravigliosa di giorno, a tratti sul terreno solido, a tratti sprofondando nel fango fino alle ginocchia (e chi, come me, è caduto, anche fino ai gomiti! =P ) …e di notte, ascoltando in silenzio il fruscio del vento, lo strisciare dei serpenti, il cinguettio degli uccelli e il gracidare delle rane.
Uno dei momenti che più mi ricorderò è stata la sera in cui siamo andati nella laguna di Cuyabeno. D’estate è piena d’acqua, dove nuotano i delfini rosa. Quando siamo andati noi però era un’ immensa distesa di fango. Era l’ora prima del tramonto, quando c’è quella luce calda, che è la mia preferita. Mi sembrava di essere in un luogo senza confini, infinito e fuori dal tempo. Magico. Vedevo  la distesa di fango illimitata, popolata solo da maestosi alberi solitari e da qualche pozza d’acqua che rifletteva il cielo. All’orizzonte la foresta, che potevo immaginare ancora più immensa. Poi è arrivato il tramonto e i colori sono diventati ancora più meravigliosa.
Mentre stavamo tornando, in canoa, è calato il buio. Eravamo circondati da tante piccole lucine rosse, sembrava quasi di vedere una città da lontano… solo che erano occhi di coccodrilli!! Alcuni lunghi sei metri! Per fortuna evidentemente tutti avevano già cenato e ci hanno lasciati in pace =P

 Giovedì sera siamo tornati in città, a Misagualli, dove il giorno dopo abbiamo conosciuto una cooperativa di donne indigene Quichua che hanno aperto un ristorante e un piccolo museo di artigianato. E’ stato bellissimo ascoltare la loro storia… Vivono in un piccolo villaggio lungo il fiume Napo, due anni fa hanno deciso di riunirsi per cercare di trovare insieme un modo per migliorare la loro situazione, che si stava facendo sempre più critica: mariti senza lavoro, figli senza istruzione,miseria. Così hanno unito le loro forze e hanno dato vita ad una cooperativa. Le difficoltà che stanno affrontando sono tante, in primis l’estenuante opposizione dei  mariti, ma dalle loro parole trasparivano un coraggio, una determinazione, una speranza grandissimi.

Al ristorante della cooperativa c’erano dei ragazzini che stavano facendo le prove dei balli: si  vedeva che si stavano divertendo un mondo e non facevano altro che ridere. Vedere tutta questa allegria mi ha fatto pensare a quello che ho io e a quello che hanno loro… e mi rendo conto che ogni giorno ho almeno mille motivi per essere felice e grata alla vita.

Sabato la nostra avventura si è conclusa davvero in bellezza: siamo andati alle grotte di Cuman. E’ stata un’esperienza  fantastica camminare con la luce della torcia nei cunicoli tra stalattiti e stalagmiti… e la parte migliore erano i cunicoli pieni d’acqua in cui bisognava nuotare!

Metterò al più presto le foto di tutto :)

 

giovedì 25 ottobre 2012

Se dovessi scegliere un unico posto per rappresentare Quito, questo sarebbe il mercato di Ofelia:
... un'esplosione di gente, bambini, colori, forme, odori, voci, grida, caos, allegria!

Spero che le foto riescano a rendere almeno l'idea! ;)

martedì 23 ottobre 2012


Non ho mai sopportato perdere tempo con gli spostamenti.
Ora per andare al centro infantile devo farmi più di un’ora di autobus.
Eppure è uno dei momenti della giornata che mi piace di più… Mi perdo ad osservare le persone:  i loro visi, i loro vestiti, i loro gesti. E’ troppo bello, in questo paese ci saranno una ventina di etnie, con lineamenti e colori della pelle diversissimi. Gli Untsuri Shuar, gli Huaorani, i Quichuas, gli A’l Cofàn, i Saraguros, gli Afroecuatoriani…e chi più ne ha più ne metta.
Sto imparando a vivere il tempo senza volerlo sfruttare a tutti i costi.
Sto conoscendo ragazzi che hanno la mia età, ma vite molto diverse dalla mia.
Mi piace moltissimo il momento dopo il pranzo al centro infantile: i bambini si addormentano, e Gaby, Nancy e io ci sediamo sul tappeto a chiacchierare. Mi hanno colpito queste due diciannovenni, sempre allegre e affettuose, che dal lunedì al venerdì lavorano dalle 7 alle 16, poi tornano a casa a studiare e sabato e domenica si svegliano alle 5.30 per andare all’università.
Oggi Nancy mi ha portata nella stanza dove stanno i bambini di un anno, si è fermata davanti ad una bambina e, sorridendo, mi ha detto “Questa è mia figlia”….
Forse sono riuscita a nascondere lo stupore solo perché per strada vedo spesso ragazze giovanissime che spingono carrozzine.
“Anche Gaby ha un figlio?” ho chiesto io.
“Aveva un bambino, ma è morto due anni fa, quando aveva una anno”.

 Abbiamo storie e vite molto diverse, ma è bellissimo che il modo di fare amicizia e di divertirsi sia lo stesso.